Tommi Space

Non so più leggere

Le lettere, le parole mi scorrono davanti senza lasciare un segno. È tutto uguale, lontano, criptico, inafferrabile. Come se ciò che leggo apparisse in una lingua diversa da quella che il mio cervello sa decodificare.

Più penso a questo più l’effetto si accentua e diventa inevitabile. Più confido nella lettura e credo nella sua importanza, più mi rivelo incapace di valorizzarla leggendo.

Più voglio leggere, meno so leggere.
O meglio: più voglio leggere, più provo a leggere, più penso di non saper leggere e meno so leggere.

Questo problema è talmente grave ed alienante che persino rileggendo queste parole, che io stesso ho appena scritto, fatico a interiorizzarne il significato più profondo.

Ancora più preoccupante è il fattore riguardante la memoria, l’acquisizione e conservazione di nozioni, ragionamenti, ogni sorta di conoscenza a lungo termine.
Penso —lasciandomi distrarre— che fra poche ore non sarò in grado di ricostruire quello che ho appena letto, né tantomeno di ripeterlo. Sono dilaniato da una crisi di cui io stesso sono causa, disperato da una pressante instancabile spinte verso l’ignoranza, che è la mia massima preoccupazione.

Un poeta mercenario sul lungo Tamigi. Londra, giugno 2018
Un poeta mercenario sul lungo Tamigi. Londra, giugno 2018

Scrivo, ma non so leggere. Scrivo, ma non so rileggere e capire quello che ho scritto, intuendo il significato delle mie parole solamente ricordandomi di averle minuziosamente cercate e scelte. Non so rispondermi nel chiedermi se la frase che ho appena digitato ha un senso, non so definire –conseguentemente non so seguire gli standard di— una grammatica istintiva che non saprei spiegare.

L’allarmante panorama finora descritto si aggrava ulteriormente, divenendo quasi catastrofico, quando si tratta di inglese, che dovrebbe essere la lingua che più utilizzo (leggendo, scrivendo, ascoltando) tutti i giorni. Mi perdo a rileggere per svariati minuti proposizioni che non so scegliere di capire. Mind you: non è un problema della lingua in sé, né una questione di complessità dei periodi, né tantomeno di contenuti. Si tratta lettura. (punto).

L’ultimo mezzo freddo e macchinoso che ho per capire ciò che leggo sono gli elenchi puntati. La loro schematicità supera la mia incapacità di elaborare espressioni prosaiche e arrivano dritti alla mia testa, salvandomi dalla privazione di conoscenza alla quale tanto incoerentemente aspiro. Peccato che gli elenchi puntati siano il primo passo verso il più vacuo analfabetismo.

Non ho inventato nulla: davvero mi trovo in questa sorprendente, scomoda e piuttosto critica. Non sono però letteralmente un analfabeta, né sono patologicamente incapace di leggere: non mi è completamente impossibile attribuire un significato a quello che leggo. Il mio problema è molto più sottile, subdolo e perciò potenzialmente più venefico: ho perso la dote di lettura profonda che mi pregiavo di possedere, che arricchisce e nutre la mente dei nobili di spirito, ho smarrito (sto smarrendo) la capacità di andare oltre l’esplicito ed immergermi negli oscuri dell’implicito, del sottinteso, negli abissi bui dei diversi campi semantici, che possono essere illuminati solo con la bellezza di ciò che è lasciato all’interpretazione del lettore.

Conservo avidamente la concupiscenza da lettore selvaggio, ma non lo sono più veramente; sono vittima di un immenso e devastante circolo vizioso, esasperato dai pixel di uno schermo su cui i nostri occhi si stancano la maggior parte del giorno (e no, non è quello il motivo: una pagina di un libro è a me incomprensibile quanto un pagagrafo sul NYT).

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